Tra le personalità più importanti del Novecento rientra quasi sicuramente René Magritte (Lessines, 21 novembre 1898 – Bruxelles, 15 agosto 1967). Facilmente riconoscibile per le sue opere emblematiche, spesso composizioni di giochi di parole e immagini, trasforma l’arte come un mero gioco di associazione.
A dire il vero, dietro a questi costrutti evocativi si nasconde un importante messaggio, ossia: liberare la mente dai costrutti creati dall’uomo e trasformare le emozioni negative in convenzioni positive e spesso ironiche, abbandonando i limiti imposti dalla stessa ragione umana. Elogiando quindi, la fantasia scaturendo emozioni di sorpresa, riflessione e stupore.
Tra le opere che più riassumono questa poetica dell’artista vi è Il figlio dell’uomo, del 1964 (nell’immagine sottostante).
Il soggetto è un autoritratto di Magritte, vestito di un abito scuro, abbinato a una bombetta, del quale non si vede il volto poiché nascosto da una mela verde.
La mela verde nelle opere dell’artista belga ritorna spesso: ecco, infatti, che laddove s’ingrandisce, altrove si trasforma in una maschera. Nel caso di questo dipinto, la mela è un mezzo di contrasto tra l’uomo e la sua sete di ricercare un qualcosa di visibile al di là della mela stessa.
Considerando la teatralità di Magritte, non dobbiamo soffermarci all’immagine raffigurata, lì dove, l’uomo non appare perché ha un volto, sempre visibile, ma andare oltre, nell’antro psicologico umano, parte inafferrabile della sua vera identità.
Antonella Buttazzo per L’isola di Omero