Camminavo lungo la strada con due amici
quando il sole tramontò
il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue
mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto
sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco
i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura
e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.
Con queste parole, Edvard Munch scrisse e poi dipinse L’Urlo, il suo quadro più celebre. Realizzato nel 1893, esprime l’intenso senso di sofferenza provato dall’artista e lo stravolgimento della natura che lo circonda. Il cielo, infuocato, è reso sotto forma di lingue di fuoco che incombono sulla città, mentre in
primo piano vi è il sentiero con la staccionata, e sulla strada trovano spazio le figure di due persone che paiono non essere toccate dallo stravolgimento del paesaggio; in primo piano, il protagonista è uno spirito deforme, ha perso ogni connotato umano e assume un’espressione disperata.

Nessuno prima di Munch aveva portato la figura umana a un tale grado di deformazione e nessuno era riuscito a fornire un’immagine così icastica dell’angoscia esistenziale.
Si tratta di un grido di dolore che non si conosceva, fino a quel momento, nell’arte. Statue e dipinti rappresentavano il grido della Madonna di fronte a Cristo morto o il dolore fisico delle anime dell’inferno. Qui invece l’urlo è suscitato dal Nulla, a causa del perdersi di ogni Senso dell’esistenza: l’uomo, ridotto a una solitudine senza conforto, viene schiacciato dal peso di un mondo, del quale egli non
conta più nulla. È un dolore esistenziale che rappresenta la crisi di fine Ottocento con un conseguente crollo dei valori: l’uomo non sa più chi è, e l’urlo di angoscia che emerge dall’opera si estende a tutta l’umanità.
Rosa Araneo per L’isola di Omero